Col di Favilla è un piccolo paese situato a 940 m. s.l.m. sotto gli strapiombi del Pizzo delle Saette ed è circondato da boschi di castagno e faggio. Il paese e’ stato completamente abbandonato ed e’ stato restaurata solamente la chiesa, il cui campanile svetta sopra la selva di castagni. E’ ancora possibile raggiungerlo dal Puntato o da Isola Santa. Le origini di Col di Favilla risalgono alla seconda metà dell’600: nasce come alpeggio utilizzato dai pastori provenienti dalla Garfagnana, che vi edificarono poi la chiesa dedicata a sant’Anna. Questa fu ristrutturata nel 1898 per volontà del parroco don Cosimo Silicani, il quale fece costruire nella facciata una piccola meridiana in marmo. Il parroco prestò servizio fino al 1942, anno della sua morte. Abbandonato il paese la chiesa fu devastata da vandali di passaggio fino a quando alcuni dei vecchi abitanti provvidero a restaurarla come attesta un’epigrafe posta sulla facciata: “I superstiti di questa frazione del Col di Favilla sistemati nei vari paesi della Versilia e della Garfagnana hanno voluto riparare la devastazione che mani sacrileghe fecero a questa chiesa negli anni 1968 – 1970” . Dietro la chiesa, ancora intatto, svetta il campanile in pietra; un’iscrizione racconta della sua costruzione: “Questo popolo unito al cappellano Vanucci fecero costruire il campanile e le campane. Anno 1670”. Nel bellissimo volume Le Alpi Apuane, edito da Le Lettere con testi e fotografie splendide di Bruno Giovanetti (libro che non deve assolutamente mancare a chiunque ami e frequenti le Apuane) si trova un racconto di Fosco Maraini (famoso scrittore, viaggiatore e alpinista, padre di Dacia, morto nel 2004 e sepolto nel piccolo cimitero dell’Alpe di S. Antonio) sulla sua prima esperienza sulle Alpi Apuane, compresa una nottata trascorsa a Col di Favilla, borgo che allora era abitato da molte persone, nel 1928, quando aveva 16 anni: credo che sia il piu’ bel testo mai scritto su queste montagne, parole di vera poesia, insomma un capolavoro.
Ecco le sue parole..
Il mio primo contatto iniziale con le Apuane ebbe dell’Apocalittico. Potevo avere otto o nove anni. La prima guerra mondiale era terminata da poco. Di villeggiatura ne parlavano solo i nonni, i quali fortunatamente mi amavano molto e mi tenevano volentieri con loro. Quell’anno, 1920 o ’21, avevano scelto Vallombrosa come base, e a Vallombrosa alloggiavano nella pensione chiamata il Paradisino: si trattava di un antico romitorio costruito, come un nido d’aquila, sopra un antico appicco ragguardevole di rocce grigiastre. Dalla terrazza del Paradisino si godeva un panorama favoloso: si vedevano non solo tutte le selve di Vallombrosa, ma, verso ponente, la valle si spalancava offrendo una visione di colli, montagne e fiumi lontanissimi, quasi come in uno smisurato plastico geografico. Si vedeva anche Firenze, o meglio la si indovinava per un certo luccichio scherzoso di vetri che riflettevano il sole verso l’ora del tramonto. Un pomeriggio ci fu un violento temporale. Saette impazzite si schiantavano sugli alberi della foresta dinanzi a noi. Non sapevo se restare incantato a sbirciare lo spettacolo dalla finestra, nascondermi in camera – come voleva la nonna. Confesso che questa duplice reazione ai temporali m’e’ sempre rimasta addosso. Anche oggi quando sopravviene un temporale mi sento diviso tra la voglia di guardare dalla parte dove potrebbero esplodere delle saette e il timore delle medesime. Passata la tempesta di tanti anni fa, si profilo’ – come succede – un favoloso tramonto. L’aria era stata spazzata dalle piogge ed era quindi limpidissima, molto piu’ trasparente del solito. Tutti, nonni compresi, si affacciarono sulla terrazza ad ammirare lo spettacolo. Il cielo era ancora coperto da un soffitto compatto di nubi viola, ma verso ponente si apriva una lunga finestra orizzontale di colore rosso. E contro quello spacco di mondo si profilavano dei monti aguzzi, impertinenti, assolutamente straordinari, d’un colore paonazzo che faceva impressione. Che sono quelle montagne strane? chiesi. E qualcuno mi rispose: Sono le Alpi Apuane…E’ da la’ che viene il marmo….Quale impressione quello spettacolo! Piu’ di settant’anni dopo ce l’ho ancora vivissimo negli occhi. Mi sembrava d’aver visto il Karakorum o l’Himalaya. Appena un tantino piu’ grande scoprii le gioie dell’andare in montagna. Fortuna volle che fino dalla prima media (allora si parlava di ginnasiali) scoprissi un compagno di classe, Bernardo, un’anima gemella. Avevamo 14 anni quando ci lanciammo nelle prime gite sui monti che chiudono la conca di Firenze, per esempio sul Monte Morello. Oggi esso e’ facilmente raggiungibile con belle strade asfaltate, che conducono fino a mezz’ora dalla cima (che sfiora i mille metri); allora pero’ la salita si doveva affrontare, un passo dopo l’altro, fin dalla base. Che ne dici Berna – esclamai – andiamo laggiu’ tra le vere montagne, invece di perdere tempo tra queste insulse colline?. Bernardo fu d’accordo. Cosi’ preparammo in grande segreto la nostra prima spedizione, timorosi d’una proibizione da parte dei genitori. Da certe carte che avevo trovato al Club Alpino si vedeva chiaramente che la catena montuosa apuana veniva penetrata nel suo cuore da una ferrovia la quale, partendo da Seravezza conduceva fino ad Arni, traforando l’ultima cresta con la galleria del Cipollato, a carca mille metri di quota. Perfetto! – esclamo’ Bernardo – saremo gia’ in alto, forse riusciremo a salire il Monte Corchia, o addirittura la Pania. Ma silenzio, non diciamolo a nessuno! Con la scusa di visitare degli amici in Versilia, partimmo quasi di nascosto all’alba di un giorno di prima estate, muniti di scarponi (allora chiodati!), di sacchi, d’una corda (di canapa…), di borracce e via dicendo. Hai portato una bussola, se in caso c’e’ nebbia? chiesi a Bernardo… Finalmente salimmo sul famoso trenino. La locomotiva a vapore sembrava uscita da una cronaca dell’Ottocento. Sputava fumo e vapore come un mostro e nei momenti critici (curve strette, gallerie, paesi) lanciava degli urlacci disperati, quasi fosse un animale di metallo ferito. La locomotiva trainava numerosi vagoni merci piatti e aperti (ovviamente per caricare marmo), nonché una piccola carrozza passeggeri, come se ne vedono oggi, ricordate umoristicamente su certe scatole di caramelle o cioccolatini. Lo scartamento dei binari era ridottissimo in modo da permettere anche curve molto strette, e salite che non finivano mai. La salita verso la montagna duro’ ore ed ore. La locomotiva ansimava e procedeva lentissima. Il tracciato vagava qua e la’ per i colli e toccava molti paesi, Levigliani, Terrinca ed altri ancora. Nella carrozza passeggeri c’erano pochissimi viaggiatori. Attaccammo discorso con un vecchione straordinario che ci dette molte notizie su quelle montagne a noi sconosciute. Perché straordinario?. Semplicemente perché sfoggiava dei baffi, o meglio mustacchi, d’una lunghezza prodigiosa, di cui andava fierissimo. Mentre parlava, li affusolava amorevolmente con le dita a formare due pennacchi candidi e sottili che poi, con un gesto elegante e spedito, avvolgeva piu’ volte intorno agli orecchi! Non bastava questo per definire il vecchio straordinario? Molti anni piu’ tardi venni a sapere che esiste una figura misteriosa nel folklore garfagnino, chiamato il Linchetto. E come si distingue un Linchetto? Dal fatto che ha due baffi che toccano terra…. Che avessimo per caso incontrato il Linchetto? Giunti all’ingresso della famosa galleria del Cipollaio, era ormai pomeriggio tardi. La galleria doveva dirsi in realta’, allora, un antro nero, stretto, lunghissimo, infernalmente umido: goccioloni d’acqua, in alcuni punti dei veri scrosci, piombavano dalle rocce nude della volta sulla lamiera della carrozza passeggeri, producendo un fracasso di bandone colpito dalla grandine. Usciti dalla grotta – galleria, il trenino si fermo’ come esausto, sfinito – e scendemmo a terra. Nell’aria si sentiva ormai la sera, e sarebbe stato logico pernottare a Campagrina o nelle vicinanze. Ma noi eravamo cosi’ incantati dall’idea di trovarci davvero nel bel mezzo delle Apuane, che ci ponemmo subito in cammino, risalendo il vallone di Campanice, puntando verso Fociomboli e il Monte Corchia. Come era diverso il mondo apuano di quei tempi da quello di oggi! Campanice era il bel nome collettivo di numerosi casolari dispersi su per una vallata aprica, con selve pascoli e campi terrazzati. I sentieri erano spesso accompagnati da siepi ben tenute di bossolo – come in un giardino. Oggi il nome Campanice compare ancora sulle mappe, ma si vedono solo edifici abbandonati, e ruderi che fanno pieta’. Oggi, come in tanti luoghi delle Apuane, nessuno vuole piu’ vivere dove l’esistenza e’ dura, grama, fatta di patimenti e di privazioni. Allora ogni casa era abitata, rallegrata da panni di vari colori stesi ad asciugare, caldani voci e di presenze umane. E cani abbaiavano, pecore brucavano l’erba, vacche ruminavano tranquille sotto gli alberi da frutto. Qua e la’ degli uomini stavano falciando l’erba con gesti larghi e armoniosi, maneggiando la grande falce tradizionale a due mani – ormai visibile solo nei Musei, come a San Pellegrino in Alpe. Mogli e figlie, con fazzoletti in capo e gonne lunghissime, portavano carichi di fieno verso le abitazioni e le stalle. Un uomo anziano col cappello in testa e la pipa in bocca, seduto dinanzi ad una capanna, vedendoci passare sotto il peso dei nostri sacchi, sudati e ansimanti, ci saluto’, poi incuriosito (pero’ senza alcuna ironia) ci chiese: Ma voi, chi vi paga? Era notte ormai quando raggiungemmo il varco di Fociomboli. Trovammo una mestaina (le cappelle si chiamano cosi’ da quelle parti), sotto il cui arco stava un provvidenziale mucchio di fieno, che ci permise di dormire alla meglio. All’alba ecco davvero le Alpi Apuane dinanzi a noi, in tutto il loro splendore! Ecco il Monte Corchia turrito, difeso da spalti strani di rocce candide a strati orizzontali. E’ piu’ lontano sorgeva ribalda una fantasia superba di rupi: il Pizzo delle Saette! I primi raggi del sole tingevano di rosa pareti, creste, strapiombi. Ci sentimmo beati, benedetti da singolari privilegi, ammessi in un mondo di preziosi incantamenti. T’aspettavi tante meraviglie? chiese Bernardo. Io no, francamente; le Apuane superano ogni aspettativa…. Oggi addentrarsi tra quelle montagne, usufruendo di strade asfaltate, in auto o in moto, e’ la cosa piu’ facile che ci sia; ma allora nulla di tutto cio’; le distanze erano grandi, e andavano superate con fatica, passo dopo passo. Ogni piccola meta raggiunta dava soddisfazioni immense. Radunate le nostre cose calammo su Puntato, una zona di vasti pascoli in declivio verso nord, quindi umidi e verdi. Li’ trascorrevano l’estate alcuni pastori. Improvvisamente ci trovammo immersi in un mondo arcaico, quasi preistorico, oggi non solo sparito del tutto, ma – starei per dire – inconcepibile. Il riparo e la dimora temporanea di n pastore, presso cui ci fermammo, erano costituiti da rozzi pali di legno posti in appoggio contro un salto verticale di roccia bigiastra. Sui pali erano state poi fissate delle frasche di faggio e delle zolle di terra. Tra la pareti di roccia, il ripiano di terra alla sua base e questo tetto primordiale, risultava una specie di antro triangolare, micidialmente fumoso per via d’un focarello di ciocchi accesovi al fondo. Li’ il pastore dormiva, riposava, mangiava, si riparava dalla pioggia. Il pastore era giovane, un ragazzetto poco piu’ anziano di noi, aveva una faccia simpatica, incorniciata di capelli castani lunghi e scompigliati. Gli chiedemmo se ci vendeva del latte; ce ne dette in abbondanza e non volle compensi. Ci togliemmo i sacchi e ci sedemmo a scambiare quattro chiacchiere. Il pastore non aveva ancora fatto il militare, non era mai stato a scuola, era per cosi’ dire vergine di mondo. Ci chiese se eravamo quelli delle tasse. Lo rassicurammo subito che no, dal che si dimostro’ sollevato e felice. Allora siete del grupparpinno? chiese un po’ meno impensierito (voleva certo dire del Club Alpino). Gli rispondemmo di si e cio’ parve rassicurarlo ancora di piu’. In quei tempi lontani (ben settant’anni fa) le distinzioni tra le classi sociali erano ovunque cospicue; i divario di costumi, di abiti, di aspetto, di mentalita’, tra coloro che vivevano nei grandi centri e gli altri, era addirittura spettacolare. Se i giovani d’oggi potessero per magia tuffarsi in quegli anni di inizio secolo, si guarderebbero attorno attoniti, increduli, forse sbigottiti, forse fieramente indignati. Il fenomeno era visibilissimo a Firenze stessa, dove ogni venerdi’ Piazza della Signoria e dintorni si riempivano di fattori, mediatori e contadini per il consueto mercato delle bestie di allevamento. L’aspetto fisico di quegli uomini era caratteristico, semplicemente perché stavano al sole, all’aria aperta, mentre i cittadini di allora, e specialmente le cittadine, evitavano con cura d’abbronzarsi. Stare al sole e’ un gusto nato poco prima della seconda guerra mondiale e fiorito poi sempre piu’ fino a oggi. Se le due civilta’, quella contadina e quella cittadina, avevano aspetti cosi’ diversi nei dintorni dei centri maggiori, figurarsi come differivano quando capitava di mettere piede in plaghe remote, rimaste isolate da sempre, al di fuori delle vie battute. Col giovane pastore parlavamo piu’ o meno la medesima lingua, ma questo serviva solo vagamente da ponte fra i nostri pensieri. Lui non sembrava comprendere in alcun modo come potessimo trovare piacere a visitare quei greppi selvatici, quelle prode sassose, senza alcun tornaconto materiale, anzi spendendo soldi per treni e consumo di scarpe! Gli restava evidentemente un fondo di sospetto, forse di paura, nei nostri riguardi. Quando gli dicemmo che saremmo saliti volentieri sul Pizzo delle Saette, ci guardo’ di traverso, quasi fossimo stati muniti di pericolosi poteri. State attenti – fece sottovoce – lassu’ ci sono gli “omobestie” e quando si incontrano quelli non si sa cosa succede…. Bernardo, col suo gusto per le antiche leggende, rizzo’ subito le orecchie e cerco’ di indagare piu’ a fondo, ma il pastore si chiuse in un nervoso mutismo. Forse temeva che lo deridessimo. Chissa’! Lasciato il pastore proseguimmo facilmente in piano per la Foce di Mosceta, e poi in discesa per un paesino il cui nome, letto sulle carte, ci aveva incantato: Col di Favilla. Colle va bene – diceva Bernardo – ma perché di Favilla? Che ci fosse stato qualche fenomeno vulcanico da quelle parti! Oppure il nome ricordava qualche apparizione soprannaturale? Scendi e risali, risali e scendi, finalmente scorgemmo, quasi sepolto tra giganteschi castagni, un campanile, poi comparvero dei tetti a lastre di pietra grigia e delle case. Il villaggio sorgeva in un punto di straordinaria bellezza, sulla cresta pianeggiante d’un monte, a quasi mille metri di quota, proprio dinanzi ai dirupi spettacolari e selvaggi del Pizzo delle Saette. Col di Favilla, oggi tristemente abbandonato, era davvero la fine del mondo. Per giungervi c’era un solo mezzo: il caval di san Francesco e a larghe e lunghe dosi. Ad ogni modo li’ trovammo calda e cordiale accoglienza presso una vedova del luogo, che dava in affitto due stanze agli alpinisti e ai cacciatori, a lire due per notte, se non sbaglio, compresa una ciotola di latte cremoso la mattina. Della casa ospitale ricordo soprattutto il letto, un trabiccolone di metallo nero, indicibilmente alto e vasto: inerpicarvisi era come salire su di un altopiano. Odorava un po’ di antiche muffe, pero’ ci si dormiva regolarmente. La vita morale e materiale a Col di Favilla ruotava ancora in pieno attorno al dio castagna. Le piante che producevano i frutti preziosi erano secolari, gigantesche, con certi tronchi da abbracciarsi in tre o quattro persone, curatissime, rispettate, amate. Il terreno ai loro piedi era tenuto libero da frasche, sterpi, cespugli di ogni genere per poter raccogliere piu’ facilmente i ricci d’autunno. Il castagno aveva insomma gentilezza e respiro di un vero parco. E si mangiavano in continuazione i prodotti di questi alberi solenni e generosi: castagne secche nel latte, necci di farina dolce, pattona da tagliarsi col filo, migliacci di variate specie, tutte saporitissime. In quei tempi viveva a Col di Favilla – temporaneamente o stabilmente? non si capiva – una strana e vistosa fanciulla. Era alta, formosa, e si vestiva piu’ da borgo trafficato che da villaggio remoto, con una gonna che prefigurava con un anticipo di parecchi decenni Mary Quant e le sue mini. Teneva moltissimo alle sue gambe, che infatti erano assai ben modellate. Le facemmo una foto e tutti del villaggio, uomini e donne, giovani e anziani, vennero a godersi la scena. Ci fossero state delle cave di marmo nelle vicinanze, un seminatore d’ipotesi azzardate avrebbero potuto gettar la’ un discorso sugli amori venali dei cavatori lontano da casa; la le cave piu’ vicine, allora, si trovavano ad Arni, quindi lontanissime. Incuriositi chiedemmo notizie di questa fanciulla alla nostra vedova, padrona del letto – altopiano. La brava donna parve molto imbarazzata, straluno’ gli occhi ed esclamo’ soltanto Eh, quella la’…! Poi non volle aggiungere altro. A ogni modo noi avevamo altri grilli pel capo. C’era la partita del Pizzo delle Saette da risolvere! Avevamo gia’ salito il Monte Freddone, pero’ avvolti nella nebbia. Fummo un po’ piu’ fortunati col Monte Corchia, ma sempre con cieli coperti. Finalmente ecco una giornata di vero sole! Ma non ci andate lassu’ ci dicevano quelli del Colle. Perché ha nome “delle saette”? Perché bene che vada, il tempo cambia lassu’ ogni due o tre ore… E poi ci venivano in mente gli omobestie, ricordati con visibile paura dal giovane pastore di Puntato. Ma ormai avevamo deciso, e partimmo all’alba. Da veri folli volemmo aggredire il monte per la via ritenuta allora piu’ difficile: quella del crestone nord. Avevamo con noi trenta metri di corda di canapa (allora niente nailon, ancora), piu’ due o tre chiodi con relativo martello, ma sapevamo solo teoricamente farne uso. La prima parte della salita non era difficile, anche se lunga e faticosa. Poi ci trovammo sopra una cresta aerea, leggermente curva verso destra, formata da strani massi biancastri d’un calcare a lamelle; facevano pensare a frammenti d’una gigantesca torta millefoglie. Ai lati intanto andava crescendo il vuoto, due voragini smisurate. Lontano laggiu’ si vedevano i ravaneti, ai piedi del monte, i boschi, le case di Col di Favilla, sembrava di volare, un panorama come ci dicevano che si dovesse vedere dall’aereo. La cresta, sempre piu’ affilata, finiva contro un muro di pietra solida e grigia, alto una diecina di metri, la vera chiave della salita. Tornare indietro? Neppure per sogno! Piantai, il piu’ alto possibile, uno dei nostri chiodi per assicurazione, e tentai di superare il malpasso. Alcuni appigli nascosti, e per fortuna solidi, mi aiutarono. Non ricordo bene come, mi trovai al di sopra del salto e potei gridare a Bernardo di seguirmi. Ce l’avevamo fatta! Mezz’ora piu’ tardi eravamo sulla vetta del Pizzo. Ci sentimmo finalmente dei veri uomini, non piu’ dei ragazzi. Purtroppo le profezie dei vecchi di Col di Favilla ci stavano inseguendo. Poco prima di toccare la vetta, il cielo si era oscurato e qualche lembo di nebbia ci aveva inghiottito per alcuni istanti. D’un tratto scoppio’ un chiarore cilestro, elettrico, e si senti’ un minaccioso rombo, per fortuna ancora lontano: il Pizzo chiamava le sue saette? Raccogliemmo di corsa le nostre cose e ci buttammo a capofitto giu’ per il versante facile del monte, quello che da’ sulle Foce di Mosceta. Come spesso succede, appena fummo alla base, ecco fuori il sole. Oh, ma ci vuol proprio prendere in giro il Pizzo esclamo’ Bernardo, ridendo un po’ di traverso. Divallando ancora, raggiungemmo dei magri pascoli e il sentiero che da Mosceta porta a Col di Favilla. Lungo la via ci fermammo a chiacchierare con un vecchio seduto sopra un sasso, che teneva a bada alcune pecore. Il vecchio non doveva essere garfagnino, perché parlava con accento fortemente toscano: di quando in quando aveva delle uscite di stupendo lindore poetico. Ci sarebbe voluta una di quelle macchinette, inventate mezzo secolo piu’ tardi, che registrano le voci! Attraverso il velo degli anni, due dei suoi oracoli mi sono rimasti perfettamente impressi nella memoria. Tra una cosa e l’altra gli chiedemmo dov’era un luogo detto le Mura del Turco. Il vecchio, abbronzato, rinsecchito, dagli occhi azzurri e dai capelli ormai quasi bianchi, appoggiandosi al suo bastone disse di no; poi aggiunse con tono sentenzioso: Che volete, tutti e’ posticelli e c’hanno e su’ nomicchioli, frase degna d’esser posta in capo a un trattato di toponomastica – o a un volumetto di liriche. Ovviamente parlammo del tempo bislacco di quel pomeriggio, delle nuvole che roteavano intorno al Pizzo, del tuono delle Saette. Il vecchio guardo’ a lungo in su, in giro, con aria di sofisticato intenditore, quasi di mago, poi indico’ un cumulaccio oscuro, gravido di pioggia, quasi viola. Eh, quella nuvola – disse – la pioggia la covicchia, la covicchia fin che poi la schiocca! E accompagno’ l’ultimo verbo con un gesto espressivo della mano, quasi scagliasse con violenza una manata di sabbia in terra.
Col di Favilla da Isola Santa – Parcheggiata l’auto nei pressi del lago di Isola Santa (quota 550) attraversiamo la diga (e’ consentito!) perché i sentieri CAI n. 9 e n. 11, che coincidono, passano proprio sopra la diga stessa. Dopo aver dato un ultimo sguardo allo specchio d’acqua color smeraldo, iniziamo il cammino seguendo il sentiero ben segnalato, che per un po’ costeggia la parte alta del bacino artificiale e poi inizia decisamente a salire lungo un fitto bosco di castagni. Dopo un tratto iniziale molto ripido, il percorso si snoda in falsopiano sempre nel bosco di castagni, attraversa un piccolo torrente e sale su una costa per giungere, dopo circa 1 h. e 45 minuti di cammino, a Col di Favilla (quota 940).
Col di Favilla da Fociomboli – Il Valico di Fociomboli (quota 1270, punto 1 della cartina) situato tra il Monte Freddone e il Monte Corchia è assai frequentato perché da qui passano coloro che sono diretti a Foce di Mosceta o in vetta al Corchia: noi scendiamo lungo la carrozzabile che conduce al Puntato, sempre seguendo il sentiero CAI n. 11 che ci permette di tagliare alcuni tornanti e in venti minuti arriviamo alla torbiera di Fociomboli, importantissima perché costituisce l’unica zona umida delle Apuane. Lasciata la torbiera proseguiamo sempre sul sentiero 11 che conduce, su suggestivi viottoli alberati, ai casolari di Puntato (quota 987). Da Puntato proseguiamo il cammino sempre lungo il sentiero CAI n. 11 che gira a destra e si immette in un canale dove incontra il sentiero CAI n. 128, proveniente da Mosceta: noi proseguiamo il cammino sulla nostra sinistra, sempre sul sentiero 11 e perveniamo al paese abbandonato di Col di Favilla (quota 940).